WELFARE ITALIA E BELGIO
di
Peter D’Angelo
Qual è lo stato di salute del Welfare State italiano?
L’Italia, secondo il report dell’ILO – International Labour Organization-, il welfare del Belpaese è al ventesimo posto, preceduta da tutti i paesi dell’Europa occidentale, tranne la Grecia. Sarebbe fuorviante un confronto tra nazioni eccessivamente diverse (per differenze storiche, sociali e produttive), ergo, la comparazione scelta è tra Italia e Belgio, la ventesima in graduatoria con la sesta.
Di fatti, il Belgio è preceduto solo da Norvegia, Svezia, Finlandia, Danimarca, Olanda e davanti a paesi come Francia, Germania o il Canada. La graduatoria dell’ILO si basa su un indice di sicurezza economica, che fotografa le condizioni di ciascun paese in base a sette tipologie di sicurezza: reddito, mercato del lavoro, occupazione, capacità professionali, lavoro, mansioni e rappresentanza. Ne parliamo con Carlo Caldarini, sociologo, responsabile dell’Osservatorio sociale (servizio studi) del Centro pubblico per l’azione sociale (CPAS) di Schaerbeek, nella regione di Bruxelles-Capitale. Caldarini è stato professore all’Università Roma Tre e ricercatore senior all’Università di Bruxelles e all’Istituto nazionale di economia agraria. In effetti si parla poco del Belgio. Sui grandi media, come anche tra gli addetti ai lavori, se si vuole fare un confronto tra le politiche sociali ed economiche, la tendenza è piuttosto quella di comparare con la Germania, con i paesi scandinavi, con Cina e Giappone, gli USA. Eppure il Belgio è stato il motore della rivoluzione industriale in Europa, e un paese pioniere dal punto di vista della sicurezza sociale (welfare). Il suo sistema previdenziale ha appena celebrato 75 anni di vita. È infatti nato ufficialmente nel 1944, sulla base di un progetto di patto sociale (Projet d’accord de solidarité sociale) elaborato clandestinamente durante l’occupazione nazista da una commissione formata da rappresentanti dei sindacati e delle organizzazioni padronali. Il patto sociale poggiava su due grandi pilastri: da un lato la pace sociale tra organizzazioni sindacali e padronali, dall’altro un principio di solidarietà universale. Ma in realtà, il sistema sociale funzionante oggi in Belgio è il risultato di un lungo processo di evoluzione del dialogo sociale, delle lotte e delle conquiste sociali, iniziato più di 150 anni fa, con il primo riconoscimento delle mutue operaie, nel 1851. La differenza tra il regime di welfare italiano e quello belga non si può spiegare in due parole, ma possiamo riassumerla così: il sistema belga è più equo (redistributivo), più completo (copre praticamente tutti i campi), più facile (meno complesso e più stabile negli anni), e più resiliente (ha permesso al Belgio di uscire più rapidamente dalla crisi del 2007/2010). Per fare un paragone d’attualità, il “reddito minimo di sussistenza”, equivalente del reddito di cittadinanza italiano, è stato introdotto in Belgio nel 1974. Ora, qualcuno dirà, sì ma il debito pubblico italiano… per quanto riguarda il debito pubblico, il Belgio, tra i paesi dell’area euro, è secondo solo all’Italia. Anche se le politiche fiscali degli ultimi anni hanno fatto scendere il rapporto debito pubblico/PIL, esso rimane comunque su livelli ben superiori al 60% imposto dal Patto di stabilità e crescita. Il Belgio resta comunque una delle economie europee più aperte ai mercati internazionali. Tale apertura, se da un lato costituisce un indubbio elemento di forza, rende tuttavia l’economia interna vulnerabile alle contingenze della situazione globale, con effetti sfavorevoli sulla crescita del PIL che ha accusato negli ultimi anni la debolezza e l’andamento negativo delle economie dei paesi vicini. Tutto questo per dire che stiamo paragonando l’Italia con un paese che ha le sue forze, e anche le sue debolezze.
REDDITO D’INTEGRAZIONE SOCIALE VS REDDITO DI CITTADINANZA
La comparazione con l’Italia rischia di essere davvero dolorosa. Due cose innanzitutto. La prima, è che fino all’anno scorso, e a parte alcuni tentativi sperimentali e a macchia di leopardo, l’Italia era l’unico paese UE, assieme alla Grecia, privo di uno strumento di reddito minimo.
In questo senso, il reddito di cittadinanza ha giustamente e finalmente colmato un vuoto. La seconda, per tornare alla nostra comparazione, è che il sistema italiano è ancora talmente lontano dal sistema belga, che piuttosto che indicare le differenze si farebbe prima a dire cosa i due hanno in comune.
Numero di beneficiari
In Belgio, per una popolazione di 11 milioni di abitanti, i beneficiari del reddito d’integrazione sono 143mila (luglio 2019). In Italia, secondo i dati INPS, sempre di luglio 2019, a 3 mesi dall’avvio del Reddito di Cittadinanza sono pervenute 1,3 milioni di domande e sono quasi 737 mila i nuclei familiari che sono stati dichiarati idonei. Tenuto conto delle proporzioni (11 milioni d’abitanti per il belgio, 60 per l’Italia, le percentuali sono identiche: 1,3% della popolazione. Verrebbe da dire che le analogie si fermano qui… Vediamo quindi le differenze, alcune
delle quali sono veramente indecenti dal punto di vista sociale e giuridico.
Chi ne ha diritto
In Belgio, hanno diritto ad un aiuto economico anche i richiedenti asilo e gli stranieri non iscritti al registro della popolazione (anagrafe). In Italia, correndo dietro lo slogan sovranista di “prima gli italiani”, una delle condizioni è di essere titolare di un permesso di soggiorno permanente e residente in Italia per almeno 10 anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo. Uno degli effetti di paradossali di questa norma restrittiva, è che non può accedere al Reddito di cittadinanza il cittadino italiano residente all’estero che, finito in situazione di povertà per un qualche accidente della vita, decide di rientrare in Italia. Un altro requisito che grida vendetta sul piano giuridico, è quello che esclude dal sussidio le persone condannate in via definitiva per alcuni delitti, chiaramente in contraddizione con il principio rieducativo e del reinserimento della persona, una volta espiata la pena. Per fare un confronto con il Belgio, cito un’esperienza personale.
Uno degli studi condotti recentemente per il CPAS di Schaerbeek riguardava proprio come arginare le discriminazioni sul mercato del lavoro nei confronti delle persone con un passato giudiziario difficile.
Requisiti economici
In Belgio, sono gli assistenti sociali dei CPAS che devono in primo luogo ascoltare le richieste e condurre un’analisi sociale per determinare se, nelle sua specifica condizione, la persona ha diritto o no ad un aiuto economico. In Belgio, infatti, l’assistenza sociale è un sistema di protezione per gli individui e le famiglie che non hanno più mezzi sufficienti per “condurre una vita dignitosa” (ad esempio a causa di fallimento, malattia, perdita del lavoro, problemi familiari, ecc.). Ogni CPAS deve quindi fornire alle persone e alle famiglie, alle condizioni stabilite dalla legge, l’assistenza sociale dovuta dalla comunità, il cui obiettivo è “permettere a tutti di vivere secondo la dignità umana”. Il concetto di “dignità umana” è quindi un concetto istitutivo del reddito d’integrazione. Si è certamente evoluto nel tempo, ma nella società belga di oggi implica almeno che una persona debba essere in grado di nutrirsi, vestirsi, disporre di un alloggio, curare la propria igiene e avere accesso all’assistenza sanitaria. Se, a causa delle difficoltà che una persona sta vivendo, non ha più i mezzi per soddisfare i suoi bisogni di cibo, vestiti, alloggio, igiene o accesso all’assistenza sanitaria, il CPAS deve essere lì ad aiutarla. L’assistenza fornita dal CPAS può assumere diverse forme. Dipenderà dalla situazione della persona. Può essere un’assistenza finanziaria, ma anche psicosociale, medica, ecc. Secondo i casi e i bisogni, il CPAS può ad esempio aiutare a cercare un lavoro e agire lui stesso come datore di lavoro (inserimento socioprofessionale), fornire l’accesso alle cure mediche, allo sport, alle attività culturali, distribuire pasti, e via dicendo. Il CPAS, insomma, esamina ogni richiesta di assistenza e propone i mezzi più appropriati per soddisfare le esigenze della persona. Un CPAS può in tal modo pagare le spese dell’asilo nido se il genitore sta seguendo una formazione, o pagare una protesi dentaria, o una patente di guida C, se la persona ha come progetto di diventare autista di bus. Ho seguito un caso recentemente, di un signore kosovaro, padre di un ragazzo gravemente handicappato, al quale il CPAS ha fornito un aiuto di 3000 euro per l’acquisto di un’auto d’occasione, necessaria ad assicurare la mobilità del ragazzo malato. Dal punto di vista dei requisiti economici, è infatti l’assistente sociale che valuta se la persona dispone di risorse sufficienti per vivere secondo la dignità umana, o se può fare qualcosa per procurarsi tali mezzi (ad esempio ottenere un assegno di disoccupazione). In Italia, il criterio dei requisiti economici è doppiamente umiliante. Umiliante per la persona, e per la sua famiglia, che deve sottostare a un’inchiesta invasiva e assurda, e comunque inconcepibile in paesi come il Belgio, la Francia e la Germania (per non parlare dei paesi scandinavi), secondo la quale il sussidio può essere negato perché un componente del nucleo familiare ha acquistato uno scooter. E umiliante per i professionisti del sociale, che si vedono privati del potere discrezionale che gli spetterebbe per competenza, per limitarsi ad applicare certosinamente regole pensate in un momento di grande propaganda politica, e messe nero su bianco da persone che probabilmente nella loro vita non hanno mai dovuto confrontarsi con la povertà.
Patto per il lavoro
Una sorta di patto per il lavoro esiste anche in Belgio. Si chiama “progetto individualizzato d’integrazione sociale” (PIIS) e il lavoro è uno degli sbocchi possibili di tale progetto, secondo – ancora una volta – le condizioni e i bisogni della persona, che sono accertati attraverso il dialogo tra l’assistente sociale e il cittadino richiedente. Così un PIIS può essere orientato, invece che alla ricerca di un lavoro, a quella di una formazione qualificante, o di un alloggio, se la persona ad esempio vive in strada o in situazione di sovraffollamento, o all’apprendimento della lingua, alla partecipazione ad attività sociali e culturali, e via dicendo. E anche quando si tratta di cercare un lavoro, la ricerca viene effettuata con ponderazione assieme alla persona, tenendo conto delle sue aspirazioni, mezzi, capacità, eccetera. Non è raro che la persona che cerca lavoro si senta consigliare dal suo assistente sociale di seguire una formazione, di imparare una lingua, di terminare gli studi e ottenere un diploma. Insomma di non precipitarsi nel mercato del lavoro senza un progetto professionale durevole. Questo anche per evitare che la persona torni all’assistenza sociale dopo qualche contratto di lavoro precario a destra e a manca.
IL REDDITO DI CITTADINANZA E IL DIVANO
Il reddito di cittadinanza ha giustamente e finalmente colmato un vuoto che era insostenibile. È stato messo su in fretta, d’accordo. Ma non si poteva alzare il naso e guardare a esperienze più solide, a due ore di aereo da Roma? Il vero problema, secondo me, non è nei dettagli del dispositivo, che sì, certamente, si possono aggiustare. Il problema è nella filosofia che ha portato a questo reddito di cittadinanza, al paragone inconsistente di una sindrome del divano. Ho fatto un test: digitando su Google “reddito di cittadinanza divano” ho ottenuto 107600 risultati. 107600 volte in cui, sulla rete, il Reddito di cittadinanza è stato associato al termine divano: Approvato il Reddito di Cittadinanza con le norme anti-divano, Tra il lavoro e il reddito di cittadinanza preferisco il divano, Prendo reddito di cittadinanza stando sul divano, Il Reddito di Cittadinanza per girarsi i pollici sul divano, e via dicendo. Una montagna di banalità. Come se la povertà fosse un hobby, una vacanza, un privilegio. In Belgio, che sia ben chiaro non è il paese del bengodi, tutt’altro, il Reddito d’integrazione è associato al termine “dignità”. Secondo me è qui, in fin dei conti, la differenza.