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GIOVANNI PASCOLI

Il 6 Aprile 1912 moriva a Bologna Giovanni Pascoli, due anni dopo , il 6 aprile 1914 , il direttore del risveglio Umberto Biancone tenne un’orazione commemorativa al teatro Apollo di Teramo.  L’indomani fu pubblicata integralmente sulla rivista Vita Nova, che pochi mesi dopo prese definitivamente il nome di “Il Risveglio”. le cronache della serata riportano:

“Questo discorso commemorativo fu pronunziato ieri sera dal nostro direttore, nel teatro Apollo pieno di scelto pubblico, il quale interruppe parecchie volte l’oratore con applausi, che si ripotettero alla fine prolungate ed insistenti”

di

Umberto Biancone

 

 

Tutto quanto al mondo è civile, è romano ancora.

 

Le superbe parole ne le quali si racchiude tutta l’espressione di una scuola letteraria, rispecchiante l’idealismo politico, e l’opera grande di Giosuè Carducci, che con le odi barbare affermava adempiuto né secoli il voto del carme oraziano, rispondevano pienamente alle idee dominanti in una generazione cresciuta nel periodo della rivendicazione nazionale.

L’idea della grandezza della patria, del ritorno alla gloria antica, aveva invaso gli animi dei padri nostri, i quali avevano tutti gli spiriti accesi, da quello storico romanticismo,  che con effusione di gioia salutava ed applaudiva ogni dissolvimento di vecchie forme, ogni insurrezione di elementi nuovi nella vita sociale, – come un ritorno alle origini, come una ripresa delle buone tradizioni, come una emulazione delle virtù antiche, come una restaurazione dei periodi più ammirabili e più fecondi dell’umana civiltà.

Forzate le menti del Goethe, del Byron, e de’ nostri poeti minori, dalla logica armata del giacobinismo parigino, riconoscente – la superiore necessità della rivoluzione – i concetti di popolo, di nazionalità, di democrazia prevalsero anche nella letteratura, sostenuti dalle migliori menti, da le più forti armi. Tra noi non poteva mancare, almeno uno di questi forti sostenitori ed assertori del diritto e della libertà popolare: Giosuè Carducci, fu il primo ed il più potente che raccolse le voci del tempo suo, per ammonire i codardi, per spingere i riluttanti.

Ma i suoi discepoli, i suoi amici, i fedeli del Maestro ben compresero che seguire per questa via era impresa disperata; e quando vollero tradurre i loro sentimenti di vita in immagini d’arte riuscirono naturalmente non carducciani. Primo tra questi fu il Giovanni Pascoli, il quale comprese subito che non dovevano né potevano i giovanili ingegni adattarsi alle ultime manifestazioni del risorto sentimento nazionale, quando il paese era già tornato ad essere libero ed uno quando già s’annunziava il ritmo e l’affanno di disagi nuovi.

 

*

Veniva il Pascoli, da una breve terra di Romagna. Anima candida e verginale, ingegno fine e versatile, cuore timido e trepido. Giovanetto ancora si era dato agli studi classici tanto da comporre versi latini e greci che destavano l’ammirazione di tutti; ma sopra ogni scrittore, sopra ogni poeta amava Virgilio, perché Virgilio più s’accostava alla semplicità dell’animo suo, perché Virgilio era il più gentile dei latini.

Quando dalla turrita Bologna tornava per la via Emilia alla sua terra natia, non erano i ricordi classici che ingombravano la sua mente; non ripensava le legioni romane che per quella via eran venute a portare la forza loro e il loro vigore, per propugnare gli elementi della civiltà.

Oh! Piuttosto erano i versi leopardiani che gli tornavano alla mente:

 

…Or dov’è il suono

Di quei popoli antichi? Or dov’è il grido

De’ vostri avi famosi…

Tutto è pace e silenzio, e tutto posa

Il mondo, e più di lor non si ragiona.

 

E come nei sublimi idilli del Leopardi il suo occhio scorreva a cogliere le impressioni delle tenere piante fiorite, degli ampi orizzonti, de’ cieli sereni: e l’anima attendeva al rumore delle opere umane, alle voci della vita comune, ai silenzi delle cose inesplorate. Ecco quindi la sua poesia, che dalle  maestose austerità dell’arte carducciana e dai fremiti dell’esuberanza del D’Annunzio, ci trae in cospetto dell’umiltà delle cose e degli uomini, del campo e del focolare, della foresta nera e del piano solatio, e che di questo mondo interrogò tutti i misteri, ci disse tutte le voci, ci rivelò i segreti più affascinanti e tormentosi.

I soggetti delle sue poesie non sono i potenti, non i dominatori, non i distruttori, è l’uomo che non ha nome proprio, l’uomo di tutti i tempi, come visse, come vive e come vivrà, finchè sarà costretto alla dura necessità del lavoro. Ecco: presso gli alti argini erbosi si difila la via ferrata; sugli alti pali, sussurranti in gara con gli alberi che stormiscono al vento, trascorrono le onde elettriche recando ignoti messaggi; ma oltre la siepe nulla interrompe l’umile quiete dei campi. C’è un aereo presso il casolare. Una vecchia fila; un infante vagisce nella culla; gli uomini validi e seri sono fuori ad arare; i fanciulli guidano la placida forza dei bovi. Si nasce, si lavora, si muore coì, per l’umanità  nell’eternità.

Sulla strada comune un povero sosta bevendo alla fontana, sente il freddo dell’autunno imminente, alza gli occhi stanchi verso il tramonto. Oh! Il sole non sa delle umane miserie.

Sorge e dispensa a tutti i benefici del suo calore e della sua luce, ma quando cede alla notte la cura di accendere le stelle nell’infinità del cielo, non può pensare che vi siano de’ viandanti alla ventura nell’oscurità. – Faccino gli uomini che nessuno tra loro manchi di ristoro e di ricovero. Vivano in pace secondo la pia legge della carità fraterna…

Come ritorna spesso, e come vive in tutte le opere del Pascoli questo sentimento di fraternità umana. Due fanciulli rissanti messi a letto dalla madre, si addormentano buoni l’un stretto all’altro: il Poeta non sa resistere ed esclama:

 

Uomini, pace! Nella prona terra

Troppo è il mistero; e solo chi procaccia

D’aver ratelli! In suo timor, non erra.

 

Pace, fratelli e fate che le braccia

Ch’ora o poi tenderete ai più vicini

Non sappiano la lotta e la minaccia.

 

E buoni veda vo’ dormir nei lini

Placidi e bianchi; quando non intesa,

quando non vista sopra voi si chini

 

la Morte con la sua lampada accesa.

 

E canta, canta sempre il Poeta la fraternità umana, e pare sii il compito, il senso, l’ufficio della sua poesia. Nella prefazione ai Primi Poemetti, una di quelle pascoliane preparazioni in cui meglio si può conoscere i suoi intendimenti e sentimenti, scriveva: – Vorrei che pensaste con me che il mistero, nella vita , è grande, e che il meglio che si sia da fare, è quello di stare stretti più che si possa agli altri, cui il medesimo mistero affanna e spaura. E Vorrei invitarvi alla campagna.-

E pure il Pascoli non avrebbe dovuto avere ragione di amare tutti gli uomini. Non avrebbe dovuto aver ragione di dire  “Che l’odio è stolto, ombre dal volo breve – tanto se insorga, quanto se incateni-: – è la pietà che l’uomo all’uomo più deve”

 

Una mano ignota d’assassino, la notte del 10 agosto 1867, lo privava del padre “Uomo non solo innocente ma virtuoso, sublime di lealtà e bontà”.

La madre lo pianse poco più d’un anno, e poi morì, lasciando orfani e soli otto fanciulli. Intorno alla madre ben presto furon sepolti altri fratelli rimanendogli  solo l’affetto di Maria, Ida e Raffaele.

Avrebbe dovuto odiare il Pascoli, invece amava; avrebbe dovuto invocare la vendetta, invece perdonava. Amava e perdonava, riprendendo, anzi ementando la più grande e la più alta parola d’amore pronunciata dal Leopardi nel canto della Ginestra. – Perché gli odi e le ire che uccidono? Pace!-

Se nel ripetere questo invito alla sola giustizia possibile del mondo, il poeta sentiva un nodo alla gola, rivolgeva in alto il suo sguardo, e chiamava la volta celeste a testimone e partecipe della sua bontà…

Nella notte serena del 10 agosto cadono le stelle colme lagrime dell’infinito?

 

San Lorenzo io lo so perché tanto

Di stelle per l’aria tranquilla

Arde e cade, perché si gran pianto

Nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine dal tetto…

Ance un uomo tornava al suo nido:

l’uccisero: disse: Perdono,

e restò negli aperti occhi un grido:

Ora la nella casa romita:

lo aspettano, aspettano invano:

E tu cielo, dall’alto dei mondi

Sereni, infinito, immortale

Ah! D’un pianto di stelle lo inondi

Quest’atomo opaco del male.

 

La prima manifestazione della poesia pascoliana fu di dolore, – di un dolore che si alimentava di continui ricordi, un dolore percettivo, non speculativo.-

Il Pascoli era trasportato naturalmente dal Leopardi, benchè le ragioni contingenti del suo dolore, vivissimi ed impressionanti, dovessero trattenerlo dal partire subito, verso quelle ideazioni cosmiche che egli amò nella sua arte più tarda. Il dolore non gli chiudeva gli occhi sulle bellezze della natura, mentre la partecipazione nella bellezza naturale non gli faceva nemmeno per un attimo dimenticare il dolore. A me vien fatto di pensare – scrive Emilio Cecchi- rileggendo le sue Myricae , ad una camera funeraria rozza e povera dove giace il corpo di una dolce creatura per la prima volta, tra le lagrime hanno contemplato, sul suo viso, l’aspetto terribile e dolcissimo della morte, e che da questa camera deserta e silenziosa, con appena il crepitio di una lampada vigile, si vegga per la finestra dischiusa, cui le fronde prosperose di una vite inghirlandano, una grande campagna sommersa di sole, piena di alberi in fiore, cora da  brividi di vento e di lontane canzoni con su per le rughe dei colli, giovenchi bianchi che arano, mentre tratto tratto, nel quadrato abbagliante della finestra balzano, con il loro strido, le rondini inconsapevoli, pazze di primavera e di sole.

Son brevi poesie, nelle quali la ispirazione non si svolge drammaticamente, ma insiste su sé medesima concentricamente, brilla in alcuni riflessi, come gli increspamenti circolari di un’acqua nella quale sia gettata una pietra. Liriche fatte di lampeggiamenti e di sottintesi, di risonanze e. di echi, di analogie profonde che risaltano per virtù di rime che lontanamente si intrecciamo, quasi più che per virtù di visioni espresse, e risultano di mille accordi, ma non si possono organare, analizzare, perché sono un po’ tutti questi accordi, e non sono prevalentemente nessuno.

Tutti i folti volumi di versi del Pascoli sono un ricco e limpido rivo di poesia. Nulla di volgare, nulla di freddo, in una forma che mostra sempre il verseggiatore sapiente, l’artista conscio e originale. Ma l’arte poetica di Giovanni Pascoli non gli dev’esser da altri scoperta: l’ha egli stesso detta con attirante dolcezza, nelle strofi intitolate appunti “La Poesia”.

 

Io sono una lampada, ch’arda

Soave!

La lampada, forse, che guarda,

pendendo alla fumida trave,

la vèglia che fila…

.   .   .   .   .   .   .

 

La lampada, forse, che a cena

Raduna;

che sboccia sul bianco, serena

sull’ampia tovaglia sta, luna

su prato di neve …

.   .   .   .   .   .   .

Se già non la lampada io sia

Che oscilla

Davanti una dolce Maria,

vivendo dell’umile stilla

di cento capanne …

 

.   .   .   .   .   .   .

 

O quella, velata, che al fiaco

T’addita

La donna più bianca del bianco

Lenzuolo, che in grembo, assopita,

matura il tuo seme;

o quella che irraggia una cuna

  • La barca

Che alzando il fanal di fortuna

Nel mare dell’esser varca,

si dondola e geme -;

o quella che illumina tacita

tombe profonde – con visi

scarniti di vecchi; tenaci

di vergini bionde sorrisi …

 

.   .   .   .   .   .   .

 

Io sono la lampada ch’arde

Soave!

Nell’ore più sole e più tarde,

nell’ombra più mesta, più rave

più buona, o fratello!

 

 

E questa lampada ha veramente illuminato un mondo, che sfuggiva in gran parte alla poesia italiana, in specie a quella contemporanea, considerandola nell’opera dei due maggiori accanto al Pascoli: Carducci e D’Annunzio.

Alle Myricae, il volume rivelatore, fanno corona i Canti di Castelvecchio, i poemetti, i poemi conviviali Odi ed Inni e i Poemi italici. Ogni cosa il Pascoli, impregnava di poesia con numeri davvero singolari, suoi propri, unicamente suoi in mezzo ad una generazione affannata in verso a inselvatichire carduccianamente, a prezioseggiare lussuriosamente con verbo d’annunziano. Per la sua grande semplicità fu accusato di essere molle, di esser fiacco, di esser sdolcinato e snervante, do voler proporre all’ Italia il ritorno dell’Arcadia. Giovanni Pascoli invece diede all’Italia una ricca messe di poesia sana, sincera, delicata, squisita; Giovanni Pascoli diede all’Italia alcune liriche che non periranno; e per quelle, anche soltanto per quelle gl’italiani gli debbono riverente gratitudine.

Al rosignolo d’una sua favola si offrivano da una rana compensi del canto:

 

Oh! rispos’egli: nulla al Rosignolo,

nulla tu devi delle sue cantate:

ei l’ha per nulla e dà per nulla: solo

si l’ascoltate e poi non gracidate.

 

 

Il poeta, come il rosignolo, non cercava compensi per la sua opera, né insuperbiva per le lodi che a lui potessero venire. Scrivea in fronte alle Myricae: “Questa è la parola che dico ora con voce non anco ben sicura e chiara e che ripeterò meglio col tempo: le dia ora qualche soavità il pensiero che questa parola potrebbe esser di odio ed è d’amore” d’amore per l’umanità. Egli è istintivamente nemico della guerra e d’ogni violenza. E’ il poeta della bontà e della pace: pace e bontà che canta come nessun altro ha mai cantato. Egli Pensa che d’incitamenti alla violenza gli uomini non hanno bisogno; alla bontà sì.

Ma non credete che egli sia “il pacifista” ottuso che condanna la guerra anche se la guerra è un giorno la necessità della patria, il “pacifista” che si confonde non l’internazionalista rivoluzionario e ne appare come la contraffazione smascolinata.

Bisogna ricordare, poiché è morto il Pascoli, nell’Italia guerreggiante, quelle strofe dell’inno a Re Umberto, che possono essere considerate come il canto dell’Italia nuova:

 

L’Italia che vive nel sole,

che vuole i suoi rischi e i suoi vanti,

le marre e le trombe, le scuole

pensose e i cantieri sonanti;

 

L’Italia che spera, e s’adopra

Concorde al suo lucido fine,

che foggia il suo fato, là, sopra

le incudini delle officine:

 

l’Italia che già si dissera

nel grande avvenire il suo varco,

e avanti, sia pace e sia guerra

San Giorgio o San Marco.

 

Marre e trombe, scuole pensose e cantieri sonanti; e avanti, e sia guerra, San Giorgio, San Marco!

Questo inno sembra ripetersi ancora nel discorso “Per i nostri morti e feriti “ tenuto a Barga il 26 novembre 1911, dove Giovanni Pascoli, – sull’incudine rossa della sua sfavillante poesia, battè a suon di martello gli anelli ultimi della lunga catena che ricollega alla nostra grande tradizione storica  le vicende degli ultimi tempi.

Ma ancora, ancora oggi si levano intorno ringhiosi i suoi amici d’un tempo, quando, studente a Bologna, avea tenuto nella sua casa il registro dell’associazione internazionalista, e custodito il vessillo sul quale era scritto il motto degl’insorti lionesi: vivere lavorando o combattendo morire; quando avea anche sopportato provocazioni e sevizie di polizia; quando insomma, nella raccolta sua solitudine di studioso, aveva maturato la fede confessata allora dagli apostoli del comunismo: – essere necessario che su tutte le violenze e le usurpazioni e discordie, trionfino infine le ragioni dell’umanità.-

Ma a dispiacer a quel partito, e a tutti i partiti, Giovanni Pascoli, era già rassegnato. “ Gli uni si sentono offesi dalle praterie cristiane, gli altri si mostrano uggiti dalle favole pagane” –  osservava nella prefazioni a Odi e Inni – “ e quelli che … avessero approvato il sognatore della pace, trovandosi poi avanti l’inno alle batterie siciliane ruggirebbero contro il cantore della guerra” e rispondeva : “ quei tali … che non pretendo mi legga no, sogliono chiedere, non Ci sei? Ma Ce cosa sei? cioè, di qual parte? Di nessuna: Homo sum. Eppure ci sono certe fatali divisioni per le quali un uomo non può trovarsi di qua o di là, senza essere un uomo doppio o mezzo… Per esempio, sei per la fede o per la scienza? Sei nel gran conflitto economico, col lavoro o col capitale? – Non tengo da quelli che siffatta divisione ammettono come fatale e naturale: tanto posso rispondere… Oltre gli uomini che non aspirano se non a star bene o meglio, vi sono quelli che non anelano se non a far bene; a fare ogni giorno, ogni secolo, ogni millennio, meglio…. Sono pacieri, non guerrieri”

 

*

 

Egli era un piacere, e moriva nella Pasqua di resurrezione. Moriva mentre a più sorda gente stridevano le rondini nel vivo cielo d’aprile. Il poeta che le udiva intento moriva: ed esse gli coronavan di voli cittadini l’agonia, al tramonto. – Gl’idilli erano lungi dalla sua casa bolognese e dal cuor moribondo, poiché nessuna saggezza d’uomo è così forte che rimanga limpidamente serena e dolce quando l’artiglio della morte si sprofonda, e il destino non volle che il poeta della vita e della verità agreste fosse morto nella sua casa rustica tra quegli aspetti commoventi della primavera che oppongono le promesse della rinnovellante immortalità all’ombra della morte e l’ombra stemprano e ingentiliscono,

come l’aria azzurra il fumo dei comignoli.

Ma esse, le rondini, di là dalla finestra per cui s’accoglieva al morente il giorno supremo, erano le fedeli, volando fra cielo e grande: rondini, simili veramente ai poeti, che fanno anch’essi lor nidi fra le mille case aduggianti ma hanno il volo e il canto e sono perpetuamente ebbri d’aria e di spazio.

 

Teramo , Vita nova  7 aprile 1914 

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