DOPO IL CONGRESSO DI LIVORNO
di
Guido Celli
( socialista riformista, fu deputato al Parlamento dal 1913 al 1924)
Nel gennaio del 1921 il giornale “Il Risveglio” non fu stampato a causa della mancanza di carta; riprenderà le attività nel febbraio successivo, precisamente il giorno 20, riportando, a firma dell’ On. Guido Celli, una riflessione sul congresso di Livorno che, il 21 gennaio 1921, sancì la storica scissione della “Frazione comunista” nel Partito Socialista Italiano e la conseguente nascita del Partito Comunista Italiano.
Il congresso di Livorno si chiuse con la preveduta scissione.
L’Avvenimento era già scontato, ne Congresso e fuori, come una logica conseguenza dell’atteggiamento assunto da Serrati dopo il ritorno dalla Russia, e dei larghi consensi che quell’atteggiamento aveva raccolto nella grande massa degli iscritti al partito. E se in quel momento, durante le lunghe giornate del torneo oratorio e pugilistico, la previsione apparve velarsi di qualche incertezza, è perché appunto la logica, che è sincerità almeno formale e coerenza almeno concettuale, non sembrò presiedere in permanenza, come il ritratto di Carlo Marx, alle concitate assise, né sembrò illuminare di ugual luce lo spirito di tutti gli oratori.
Ora che l’evento è compiuto, ed è fermato nella nudità scheletrica dei suoi termini aritmetici, si può considerarlo pacatamente in quello che è prevedibile dinamismo delle sue conseguenze delle sue ripercussioni, entro la chiostra dei due partiti sorti dalla stessa matrice a contrastarsi il terreno con tanto fervore di biblica fraternità, e nella politica generale del paese, su cui la concorrente azione di quei due partiti cercherà di fissare la più larga impronta.
Il Verbalismo rivoluzionario, di cui il socialismo italiano si era venuto impregnando sino all’esasperazione ha ricevuto indubbiamente dal congresso di Livorno un fiero colpo. È fatale che tutti i verbalismi, quando hanno raggiunto il culmine della loro virulenza, se non hanno la forza, o la intenzione di tradursi in realtà, debbano ripiegare su sé stessi. È accaduto a D’Annunzio, è accaduto ai rivoluzionari italiani. Vi è un limite oltre il quale la predicazione della violenza si trova dinanzi all’inesorabile dilemma che essa stessa si è imposto: o tacere ed agire, o continuare a parlare, e cambiar discorso. I congressisti di Livorno hanno continuato a parlare. E hanno ancora una volta dimostrato che vi è nell’italiano, a qualunque partito appartenga, un certo suo meccanismo interiore di compensazioni e di ingranaggi mentali per cui all’apparente caos delle situazioni più squilibrate, più assurde e più manicomiali, nasce ad un tratto, con la più grande stupefazione degli stranieri che non ci capiscono nulla, una situazione consolidata di equilibrio, che presso altri popoli nemmeno una lunga e faticosa elaborazione sarebbe bastata a produrre.
L’equilibrio, naturalmente, non è statico. L’evoluzione del socialismo italiano dopo il congresso di Livorno rappresenterà, appunto, la soluzione dell’incognita di equivoco e di compromesso che l’equilibrio formale del voto ha lasciata sospesa sul Congresso. Vi è una posizione dialettica e polemica esplicita fra comunisti unitari e comunisti cosiddetti puri: vi è un’opposizione dialettica e polemica implicita nel seno stesso della maggioranza vittoriosa fra concentrazionisti e serratiani.
Come queste due opposizioni reagiranno sulla condotta dei due partiti, e quale delle due prenderà il sopravvento sull’altra, qui sta la chiave di tutto il movimento socialista italiano dell’immediato futuro. O si inasprirà il contrasto fra le due tendenze che si intitolano comuniste, ed allora la piccola falange riformista verrà assumendo, in seno alla maggioranza del partito, una influenza sempre più rispondente, non alle sue esigue forze numeriche, ma alle sue energie di pensiero, di tradizione, di attività organizzatrice. O il contrasto fra le due tendenze comuniste si risolverà nel parallelismo di una gara di demagogia e di rinnovato verbalismo rivoluzionario, ed allora si ripeterà nelle grandi linee ciò che avvenne dopo il congresso di Roma e l’uscita del partito dei sindacalisti. Anche allora il processo dialettico tradizionale del pensiero socialista – concezione e metodi riformisti contro concezione e metodi rivoluzionari- parve momentaneamente composto nell’integralismo, espediente anch’esso di formalismo unitario non rispondente ad alcuna omogeneità programmatica; ma si riaccese immediatamente dopo più vivace e più acre che mai, sino portare all’esodo dei riformisti, nel congresso di Reggio Emilia. Se le premesse appaiono oggi fondamentalmente analoghe, e se analogo dovesse essere il ritmo dei successivi sviluppi, le conseguenze non potrebbero essere, a breve o a lunga scadenza, che identiche.
Sostanzialmente oggi, come ieri, come sempre nella storia di un partito in cui l’urto fra due tendenze determini una risultante mediana numericamente vittoriosa e più o meno equidistante dall’uno e dall’altro popolo,
la corrente centrale, che di fatto è la più forte, è anche quella che nella teorica, nella tradizione, nella logica è la più debole, e quella che più di ogni altra vive nell’equivoco. Due tendenze si comprendono e si giustificano, ed hanno pieno diritto di cittadinanza, nelle ideologie di un partito, la cui dichiarazione è quella di preparare e di determinare un radicale mutamento di regime economico e sociale.
La tendenza estrema che nega il processo storico in quello che è il suo fatale e incoercibile ritmo evolutivo, in quella che è la sua inesorabile legge di sviluppi progressivi, per cui non è possibile anticipare l’effetto senza aver assicurato la causa, né è possibile edificare soprastrutture senza aver saldamente costruito le basi, e che considera la violenza, inserita in un determinato momento della evoluzione storica, non già soltanto come una spinta per accelerarne il moto, ma addirittura come mezzo per capovolgerne le direttive. E questo si chiama Bolscevismo, o comunismo puro, o miracolismo. E di contro a questa l’altra tendenza , estrema anch’essa, non perché sia fuori dei binari centrali della verità, ma perché la respingono a destra le infatuazioni psicologiche delle masse – che nella concezione di metodo e di sviluppo aderisce al processo storico, innestandovisi così profondamente da dominarne l’intimo moto: che intende nella quotidiana opera a porre le premesse , sapendo che le conseguenze ne saranno fatali ed automatiche; che afferma, direi quasi, i diritti dell’orologio, per cui il meriggio non può mai precedere l’alba, né il tramonto il meriggio – né lo spostare innanzi le lancette del proprio orologio, come con infantile semplicismo predicano i miracolisti, può affrettar di un solo milionesimo di secondo il cammino del solo nell’arco del cielo. E questo è il riformismo.
La prima concezione ha trovato il suo facile sblocco nel vangelo balcanico asiatico predicato al Congresso della eloquenza bilingue del signor Cabacoff e dell’on. Misiano e coronato dalla secessione dei “puri”. La seconda concezione – che del resto non trovò la sua piena e sincera espressione neanche nel Convegno di Reggio Emilia dove solo la brutale franchezza di Nino Mazzoni arrivò ad affermarla nella sua completa integrità – non ha avuto nel Congresso di Livorno altra funzione che quella di un contrappeso, a cui la scomparsa del peso contrapposto abbia consentito momentaneamente di rappresentare un’influenza decisiva nella stabilizzazione di un nuovo equilibrio. Non altro, per ora. E questo, anche dopo il congresso di Livorno, siamo ancora ben lontani dalla chiarificazione delle idee, dei programmi e dei metodi. Vi sono due logiche possibili: la logica dell’utopia, e la logica della realtà. In mezzo è la transazione, e con la transazione l’equivoco.
Il congresso di Livorno è rimasto ancora nel mezzo.
Teramo, 20 febbraio 1921