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ITALIANI CHE LASCIANO IL PAESE, MAI COSI’ TANTI

 

 

di

Peter D’Angelo

 

 

 

Anche gli italiani espatriano, il fenomeno dello ‘youth drain’ – letteralmente ‘scarico dei giovani’ – è reale, e i numeri sono consistenti. Secondo il “Report Migrazioni 2019” dell’Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, sono stai 350 mila gli italiani che hanno lasciato il Belpaese nel 2017. Per tutti gli anni 50′ sono stati 294 mila ‘in media’ gli espatri l’anno, negli anni 60′ 265 mila l’anno, nel 70′ 108 mila l’anno. Sembra un’altra epoca. Eppure è il selfie dei nostri tempi, un selfie dove manca un pezzo d’Italia. Per capirci, è come se venisse svuotata una città della grandezza di Venezia. “In un mercato del lavoro che cambia è evidente che chi sta fermo è perduto – secondo Michele Tiraboschi, docente di diritto del lavoro all’Università di Modena -, il problema è che il cambiamento oggi non è solo nel lavoro e nell’economia ma anche nella società. L’Italia non riesce ad essere attrattiva per i talenti esteri, questo il punto debole.” La polaroid che emerge dal Report è nitida “Un terzo di quelli che fuggono dallo stivale – sono circa 107 mila, puntualizza Benedetto Coccia, coordinatore scientifico dell’istituto – sono altamente qualificati, laureati e dottorati”.  A metterli sotto la lente i numeri dell’Istituto “S. Pio V” non coincidono con quelli pubblicati dall’Istat, e non sono differenze irrilevanti. Nel 2018 (dati su 2017), ad esempio, l’Istat parla di 114 mila italiani che hanno lasciato il paese, “Ci sono discrepanze tra i dati Istat e quelli proposti da noi – spiega Benedetto Coccia -, perché non tutti i cittadini italiani che vanno all’estero si cancellano dall’anagrafe italiana, per diverse ragioni: incertezza riguardo all’esito della migrazione, volontà di rimanere inseriti nel sistema di tutela del Sistema sanitario nazionale italiano, possibilità di continuare a partecipare a concorsi italiani. Talvolta la cancellazione avviene quando si è raggiunta una certa stabilità nel Paese di arrivo”. La discrepanza tra le statistiche è notevole “Noi – continua Coccia – abbiamo usato i numeri degli istituti per il lavoro delle singole nazioni di approdo, dove si spostano gli italiani, non l’Istat, non l’anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire)”. Al “S. Pio V” hanno consultato fonti interne ai 5 paesi più ambiti dall’emigrazione italiana. Nel Regno Unito, secondo l’Aire, sarebbero 18 mila gli italiani arrivati nel 2017, mentre secondo l’Office for National Statistics (Ons) – National Insurance Number (NINO) sono 56 mila, una discrepanza del 175%. In Germania la forbice tra dati ufficiali italiani e quelli tedeschi della Statistisches Bundesamt (Destatis) è del 177%, in Spagna tra Istat e Instituto Nacional de Estadìstica (Ine) è del 301%.

 

 

 

Tirando le somme, tra le fonti nazionali dei paesi di arrivo esiste una discrepanza che fa risultare il numero degli espatri 2,5/3 volte superiore a quelli rilevati dall’Istat.

 

QUANTO CI COSTANO I LAUREATI CHE SCAPPANO DALL’ITALIA

Una sorte beffarda al cubo. Chi se ne va lascia un buco nelle casse dello Stato e nel sistema produttivo. Basti pensare che – secondo dati Ocse – ogni singola laurea di I livello costa allo Stato 124 mila euro, quella di II livello ne costa 142 mila e un dottorato 204 mila euro. Insomma, con una semplice moltiplicazione (numero di laureati che lascia il paese per 124 mila euro, approssimando per difetto) si capisce che solo nel 2017 abbiamo bruciato circa 11 miliardi. L’Italia ha una media di laureati bassa, circa 10 punti percentuali in meno rispetto alla media Ue, ma per numero di pubblicazioni i nostri laureati sono terzi nella quote scientifiche mondiali.

(Fonte: Elaborazione su dati WoS – Clarivate Analytics)

 

D’altronde “Da noi i giovani laureati possono dirsi fortunati se trovano un tirocinio e un apprendistato raramente il merito viene premiato e valorizzato. Manca una infrastruttura di raccordo tra scuola, università, mercato del lavoro”. Il vero centro della questione, secondo Michele Tiraboschi, è che ”l’Italia non è attrattiva né per i talenti autoctoni né tantomeno per quelli stranieri”.  Gli Stati Uniti vivono di giovani talenti stranieri soprattutto indiani e cinesi. Sono il traino dell’economia Hi-Tech. Mentre, noi perdiamo i nostri, “L’Italia – secondo il prof. De Nardis, presidente del “S. Pio V” – soffre l’assenza di una strategia in grado di attrarre lavoratori qualificati nei comparti strategici, dove i ridotti investimenti bloccano l’impiego sia di nuove leve italiane sia di quelle in arrivo dall’estero, facendo del paese un tipico caso di spreco di talenti, di cui fanno le spese i giovani”. Non a caso, secondo l’Ocse l’Italia è l’ottavo paese del mondo per numero di emigrati. Secondo l’Aire sono oltre 5 milioni gli italiani all’estero. “Proiettando queste incidenze sulla stima degli italiani effettivi che lasciano il paese – conclude Coccia – si può affermare che dal 2008 al 2017 abbiamo avuto 1,6 milioni di espatri, di cui laureati circa 500 mila”. L’emigrazione dei giovani italiani “under 40”, secondo Confindustria, crea una perdita annuale pari all’1% del Pil.

 

COME CAMBIA IL MERCATO DEL LAVORO? USA E ITALIA A CONFRONTO

Enrico Moretti, docente dell’Università della California a Berkeley, è tra i massimi esperti e conoscitori del tema lavoro. E’ stato anche consulente, tra i più ascoltati e autorevoli, di Barack Obama. Ecco, Moretti inquadra chiaramente il mondo del lavoro negli States e anche in Italia. Il parallelo è fondamentale per capire alcune dinamiche. Dagli anni 80’ la produzione di manufatti industriali in Usa “non è più il motore del benessere per le comunità locali”. Oggi l’industria manifatturiera impegna un americano su 10 (esattamente l’8%), “ai giorni d’oggi è più probabile che un americano lavori in un ristorante che in una fabbrica”. L’industria inoltre perde posti di lavoro sempre, nelle recessioni e nelle espansioni. E’ una transizione permanente, e finché il lavoro muterà la divergenza tra occupati e quelli che dovrebbero essere riassorbiti dal mercato subirà disallineamenti. E continuerà così. Questo capovolgimento “è uno dei più importanti eventi della storia economica americana (e non solo) degli ultimi sessant’anni”.

 

Negli anni ottanta più di un milione di americani lavorava per industrie nel settore tessile; a tagliare, cucire e confezionare abiti. Ora sono meno di 100.000. I marchi godono di ottima salute, ma i capi sono fatti da terzisti in Vietnam, Bangladesh o Cina.” L’innovazione è la forza motrice in virtù della quale a partire dalla rivoluzione industriale le economie occidentali sono potute crescere ad una velocità senza precedenti.

 

L’autore chiama “la Grande divergenza“ il frutto del successo dell’innovazione: da una parte troviamo gli hub – aree geografiche fortemente dedicate all’Hi-Tech – dell’innovazione, in forte crescita (Seattle, San Francisco, Boston) dall’altra luoghi dove un tempo c’era l’industria manifatturiera e automobilistica ridotte al declino ed alla perdita di posti di lavoro. Raramente le nuove idee nascono in un deserto. Vari studi dimostrano che l’interazione sociale tra lavoratori creativi tende a produrre opportunità di apprendimento che favoriscono l’innovazione e la produttività. Come spiega Moretti – la scelta dell’ubicazione geografica di questi ”Grandi Poli innovativi” (Silicon Valley, San Francisco, Austin, Boston) e del perché siano diventato dei magneti d’innovazione è dovuto principalmente a tre “forze d’attrazione “. Si creano spirali virtuose quando forze produttive specializzate si concentrano in un solo luogo, lo scambio di informazioni cresce in modo esponenziale.

 

In Europa esiste la Silicon Valley europea, il quartiere di Hoxton, la conurbazione in poli iper-tecnologici (e gli investimenti nel settore) hanno portato ad ottimi risultati: il 40% delle Unicorn europee – ovvero le aziende con oltre 1 miliardo di fatturato –  sono in UK. Anche Berlino, Stoccolma, hanno hub tecnologici altamente performanti. Al contrario nel panorama italiano uno dei problemi di fondo è che le imprese italiane investono poco in ricerca e sviluppo e in capitale umano. In Italia si è assistito negli ultimi decenni alla scomparsa totale dei settori del computer e della farmaceutica. Quello che Moretti sottolinea è che in Italia non si riscontra l’accentramento geografico dell’attività innovativa. Nel 2000, nella prima fase della rivoluzione industriale della “new economy” legata ad internet, molti osservatori sostenevano che “la geografia è morta”. Thomas Friedman, affermava che “il mondo è piatto”, sosteneva che vi sarebbe stato l’annullamento delle distanze lavorative grazie alle nuove tecnologie. Insomma con Internet la geografia non avrebbe avuto più alcun peso. Ma questa tesi si è dimostrata priva di fondamento e finora si è verificata la dinamica opposta.

 

La nuova economia dell’innovazione dipende soprattutto dall’ecosistema produttivo in cui è inserita. “La competizione globale sarà sempre più incentrata – dice Moretti – sulla capacità di attrarre capitale umano ed imprese innovative”.  D’altro canto il mercato del lavoro sta perdendo la classe media e si sta polarizzando: soggetti altamente qualificati contro manodopera in lavori generici. Questa discrepanza genera flussi liquidi, inevitabilmente le risorse umane sono al centro del processo, ma in tal senso sussistono numeri bassi di iper-qualificati rispetto a grandi masse per le quali non è richiesta qualifica. Questi disallineamenti necessitano di una interpretazione e di una risposta politica.

 

 

 

 

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